“Queste serie di opere” scrive Marina Dacci “sono estensioni del corpo dell’artista - punto di partenza e approdo - che prendono autonomia e generano uno scambio con chi le indossa o le colloca nel proprio ambiente domestico; sono portatrici immaginifiche della sua energia, filosofia distillata da indossare come amuleti, come razzi per avventurarsi ad occhi chiusi in dimensioni siderali... Un prêt à porter relazionale con l'artista e con l’universo.
Dopo Infinite present (2017), titolo della prima personale di Ludovica Gioscia alla Baert Gallery, l’artista torna a Los Angeles con la sua seconda mostra intitolata Arturo and the vertical sea.
La mostra si irradia attraverso tre grandi strutture in legno che accolgono, quasi fossero dei palinsesti, textures e materiali tra i più disparati. Dalle carte da parati dipinte a mano agli sketches, dalle ceramiche ai tessuti, Gioscia ricrea una visione organicistica e animista in cui si mescolano, a tenere insieme un universo multifocale, visioni immaginifiche stratificate caricate dei colori della terra e del cielo.
Le strutture scandiscono lo spazio a ricreare un contesto immersivo in cui gli elementi si mescolano fino a confondersi; l’artista sembra rifiutare nettamente, e risolutamente, qualsiasi gerarchizzazione dei media e delle soluzioni formali, imprimendo invece lo spazio di un continuum che disegna un universo in cui passato, presente e futuro co-abitano.
Quello di Gioscia è un dialogo intimo e ispirato che fa del gatto Arturo, compagno di vita domestica, un animale totemico; Arturo infonde della sua presenza gli oggetti, li imprime di sè persino nella presenza di materiali organici (il pelo) e di tracce lasciate nel tempo: ciascun lavoro, armonizzato con la sostanza del Tutto, si riempie di materiali affettivi e attivatori di senso. In questa visione, che organizza lo spazio e il tempo in un continuo flusso, in cui le energie si scambiano e si irradiano transitando le une nelle altre, arrivando a pervadere gli oggetti, il modus operandi di Gioscia esemplifica ancora una volta una tensione verso una visione panica dell’arte e, con essa, dell’esistenza. Arturo and the vertical sea sembra invertire definitivamente i confini prestabiliti tra realtà e immaginazione, sovrapponendo gli strati di coscienza con quelli di sogno, confondendoli fino a scambiarli.
Ecco allora che le ceramiche, i tessuti dipinti, gli acquerelli, le cartepeste – poste su mensole di legno a bordo vivo progettate in collaborazione con il designer Mark Thurgood – consolidano il legame tra mondo naturale e mondo artificiale, integrano un universo formale in cui all’astrazione è corrisposto un alfabeto di segni e immagini, tanto tangibili quanto effimere, sognanti. Quello di Gioscia è un sincretismo strutturato attraverso il legame con significanti inter-specie.
Dal mondo naturale, primo importante terreno di scoperta per l’artista, Gioscia conduce la propria ricerca a un passaggio ulteriore; non è un caso che alcune delle composizioni in mostra siano apertamente ispirate a Staying with the Trouble: Making Kin in the Chthulucene, il libro pubblicato nel 2016 della teorica femminista multispecie Donna J. Haraway. Il concetto di trouble, a lungo argomentato da Haraway, sembra trovare un posto di eccellenza anche nella disamina visiva condotta da Gioscia, la quale architetta sapientemente, a un livello micro, quella che la filosofa e zoologa statunitense auspica come necessaria cooperazione tra tutti gli esseri viventi e non viventi, a favore di una continua tessitura di legami.
“Il nostro obiettivo è generare disordine [trouble], sollevare una potente reazione di fronte a eventi devastanti, e allo stesso tempo placare acque turbolente e ricostruire luoghi tranquilli. […] Rimanere con il disordine [trouble] significa infatti essere presenti, non come un perno evanescente che oscilla tra passati orrendi o paradisiaci e futuri apocalittici o salvifici, ma come creature mortali intrecciate in miriadi di configurazioni non finite di luoghi, tempi, materie, significati.”(Staying with the Trouble: Making Kin in the Chthulucene, 2016, trad. di Elena D’Angelo).
Citando nuovamente Haraway “Vivere-con e morire-con gli altri in modo potente nello Chthulucene può essere una risposta agguerrita ai dettami dell’Anthropos e del Capitale”: è così che probabilmente nasce anche il kin quasi mistico che lega artista e curatore in un viaggio al di là del tempo attraverso il libro Cosmic Flow, un libro d’artista stampato su carta da lucido non rilegata, realizzato in collaborazione con Marina Dacci e ispirato ai diari adolescenziali di Ludovica Gioscia.
I testi di Dacci punteggiano tutti il libro senza intromettersi nel flusso di immagini e costruzioni che affastellano le pagine: una lettura non-lineare è, di nuovo, la chiave di volta. È così che i contributi scritti esaminano una semantica che si articola attraverso una serie di sette sezioni/domande: Immaginazione ed esperienza: sogno o son desto?; Infinite Present: navigare in spazi in perenne espansione; Dal Multiverso all’Infrasostenibilità: un salto concettuale; Mettere al mondo una nuova forma di mistero; Paesaggi telepatici e scambi energetici; Ingarbugliare e sgarbugliare frames; La portabilità dell’arte.
Per estensione, ciò che scrive Dacci nel paragrafo dedicato alla portabilità dell’arte sembra calzare perfettamente con il percorso immersivo e immaginifico tracciato da Gioscia alla Baert Gallery: “Queste serie di opere” scrive Marina Dacci “sono estensioni del corpo dell’artista – punto di partenza e approdo – che prendono autonomia e generano uno scambio con chi le indossa o le colloca nel proprio ambiente domestico; sono portatrici immaginifiche della sua energia, filosofia distillata da indossare come amuleti, come razzi per avventurarsi ad occhi chiusi in dimensioni siderali… Un prêt à porter relazionale con l’artista e con l’universo.